7/5/2018 1 Comment A partire da una filieraQual'è il senso di mostrare una filiera, qual'è il senso di mostrare il come nascono e si realizzano le cose che ci circondano? Qualche giorno fa con Cesare, Juan e altri amici si parlava dell'essere processo: della condizione umana come condizione ridotta a prodotto...a funzione, di quanto sia importante invece sentirsi processo..
Attivare visivamente una filiera evidenzia come tutto quello che ci circonda, ha una sua parabola realizzativa (l'alienazione in fondo cos'è se non il rischio di non sapere più quello che fai e a cosa serve? Perdendo il senso dell'operare); in effetti molto di quello che possediamo in effetti sembra non appartenerci più, nel senso che non ne conosciamo più le forme con cui lo si ottiene. Anche con l'agricoltura si assiste ad una contrazione del sapere pratico, l'agricoltore in molti casi diventa esecutore di modelli produttivi e controllore di parametri...Un'agricoltura industrializzata che cozza con quella dimensione empatica di approccio alla natura tipica delle società rurali, in cui il paesaggio -era per così dire- il moderno banco frigo; dove era necessario esprimere consapevolezza nelle tecniche colturali e attenzione ai ritmi della natura, perché la stessa rientrava nel proprio spazio vitale; dove per 'acquistare' un prodotto ne accompagnavi lo sviluppo attraverso il processo stesso di coltivazione, un valore che pure ancora riconosciamo quando regaliamo -la marmellata di albicocche della nonna-. Oggi quel paesaggio vitale viene percepito sempre meno nei campi e sempre più nel supermarket, dove in forma di prodotto troviamo già pronti ortaggi, verdure, frutta e beni primari. In effetti se tutto ha una processualità, perché viviamo le cose che ci circondano come prodotto? Saperne la processualità come ci emancipa, e ci emancipa? Resta forse un sapere privo di interesse? Questo forse è un discorso molto personale, legato al come ognuno di noi elabora il sapere e a quale grado della propria vita lo applica. Di sicuro, ci sono ambiti del marketing che speculano sul valore latente che riconosciamo al “come si fanno le cose”; e torniamo al mondo agricolo: il cibo viene narrato -nel caso dei prodotti bio- esaltandone le tecniche produttive (rispettose dell'ambiente e salutari per l'uomo), il processo diventa quindi un plusvalore a rifarsi sull'immaginario di noi consumatori, che ancora legati ad una memoria rurale (e forse ideale?) accordiamo tale plusvalore al prodotto...ma la riflessione sul processo andrebbe ben più allargata e considerata sia in termini di sostenibilità del rapporto con il paesaggio (che resta inevitabilmente il vero banco frigo) sia rispetto alle scelte con cui si utilizza o abusa del paesaggio stesso. In questo senso proprio qui a Bolzano ragionavo sulle forme visive della monocoltura intensiva, è ho immaginato una forma di dilatazione di questo concetto; data l'estrema redditività del melo coltivato si nota una forte pervasività delle estensioni dei campi, questi vengono quasi a contatto con l'uscio delle case, specie nelle aree periurbane di Bolzano. E se davvero l'agricoltura intensiva, potesse penetrare sin dentro lo spazio della città, nello spazio pubblico e letteralmente circondare i corpi dei cittadini?...Come se ci muovessimo dentro un campo agricolo totale, in cui gli alberi le foglie e i frutti diventano spazio vitale e la gente si muove come dentro una fitta boscaglia, dentro un pattern continuo. Sento questa immagine in grado di riassumere molte delle logiche dell'agricoltura intensiva e non solo a Bolzano ma in generale; è proprio alla base dell'agricoltura intensiva aumentare la produzione a parità di superficie; a Bolzano si è passati da circa 60 alberi di melo per ettaro (anni 60) ai 400 di oggi, abbattendo la vita media degli alberi che passa da 50 anni a poco più di 10; rinnovando il principio produttivista e non empatico di rapporto con la natura, sposando una forma di agricoltura che impone al contadino modalità lavorative e gestionali tipiche di un imprenditore, di un manager; dove le macchine sono l'emblema di tale condizione. Per questo forse è anche importante riflettere sul senso del sapere oggi: il sapere come elaborazione mentale, come processo di comprensione è forse messo a rischio? Come sostiene il ricercatore Rosario Sorbello di Palermo: -a cosa serve il sapere se posso averlo artificiale e sempre a disposizione?- serve come forma di elaborazione del mondo. Per questo venire a conoscenza del circostante attraverso la loro specifica processualità è ancora diverso dal conoscere le cose stesse: come la differenza tra un bicchiere che se fatto di plastica viene dal petrolio, se di ceramica dalla terra.
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